Libreria Fahrenheit


LA “MONTAGNA” RI – TRADOTTA
21 gennaio 2011, 17:53
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“Der Zauberberg” di Thomas Mann – Le versioni in italiano.

La prima traduzione italiana di “Der Zauberberg”, il romanzo di Thomas Mann pubblicato in Germania da Fischer Verlag nel 1924, e’ di pochi anni piu’ tardi, subito dopo la assegnazione nel 1929 a Mann del premio Nobel per la letteratura.

Il titolo era “La montagna incantata”, e la traduzione quella di Bice Giachetti-Sorteni, Milano: Modernissima, 1930, in seguito Milano: dall’Oglio, 1945.



Montagna Incantata 001

Montagna Incantata 001



Su questa versione non sono disponibili in rete molte notizie o valutazioni. Si trova in particolare qualche accenno ai nomi propri dei protagonisti drasticamente e senza esitazioni italianizzati, ma in generale di essa e’, se pure senza dettagli, riconosciuta la buona qualita’ complessiva.
Ad esempio, la regista Liliana Cavani,nel contesto di una intervista sulla opportunita’ del doppiaggio dei film stranieri, “http://www.aidac.it/documenti/book/009.pdf”, la cita come esempio di traduzione bellissima (unitamente con la successiva di Ervino Pocar), tramite la quale lei e molti altri italiani hanno avuto modo di leggere e apprezzare un romanzo importante, senza molto perdere rispetto all’ originale che, a motivo della lingua, sarebbe stato loro inaccessibile.



Montagna Incantata 002

Montagna Incantata 002



La successiva traduzione risale agli anni ’60, anche se alcuni problemi di diritti ne ritardarono di vari anni una ampia diffusione editoriale.
Il titolo rimane ‘La montagna incantata’, la traduzione e l’ introduzione sono di Ervino Pocar, Milano: Mondadori, 1965; con, in appendice, La montagna incantata, lezione di Thomas Mann agli studenti di Princeton, Milano: Corbaccio, 1992; con un’introduzione di Giorgio Montefoschi e, in appendice, La montagna incantata, lezione agli studenti di Princeton, Milano: TEA, 2005.



Montagna Incantata 003

Montagna Incantata 003



Su questa versione Claudio Magris scrive nel 1992 sul ‘Corriere della Sera’ la seguente recensione.

UN SECOLO DI INQUIETUDINI TEDESCHE NELLE PAGINE DI UN CAPOLAVORO: RITORNA IN LIBRERIA “LA MONTAGNA INCANTATA”

Mann, il profeta della Montagna.
Il romanzo di una malattia chiamata Europa.

La casa editrice Corbaccio, acquisita dalla Longanesi di Mario Spagnol e rinata a nuova vita, rilancia “La montagna incantata” di Thomas Mann nella traduzione di Ervino Pocar (pagine 1.233, lire 42.000). La traduzione di Pocar, che non era piu’ reperibile in libreria, fu pubblicata nel ‘ 65 da Mondadori nel nono volume delle opere complete dello scrittore tedesco, curate da Lavinia Mazzucchetti. L’ unica traduzione italiana finora disponibile era quella di Bice Giachetti Sorteni, pubblicata da Dall’ Oglio.”Questa storia, scriveva Thomas Mann pubblicando nel 1924 La montagna incantata, e’ molto lontana nel tempo. Si e’ svolta in giorni remoti, nel mondo che precedette la grande guerra, dal cui principio sono cominciate tante cose, che forse non hanno ancora cessato di cominciare”. Nemmeno l’ ironia manniana poteva prevedere quale ulteriore e ambigua verita’ avrebbero potuto assumere, tanti anni piu’ tardi, quelle parole della sua introduzione al grande romanzo-enciclopedia che offriva un compendio della civilta’ europea e delle sue contraddizioni. Del resto non e’ strano che vi sia un paradosso temporale in un libro che e’ soprattutto un romanzo del tempo, del suo mistero e della sua banalita’ , del suo rapprendersi e del suo precipitare, vissuti quasi inavvertitamente nell’ apparente ovvieta’ dell’ esistenza. Mann aveva cominciato a lavorare al romanzo nel 1912, in occasione di un breve soggiorno con la moglie nel sanatorio svizzero di Davos; secondo il disegno iniziale, doveva trattarsi di un racconto di media ampiezza dedicato al conflitto tra il fascino della dissoluzione e il pathos borghese dell’ ordine, motivo gia’ affrontato in opere precedenti, ad esempio nei Buddenbrook e nella Morte a Venezia, e che ora doveva essere rappresentato in chiave giocosa e umoristica. Ma in ogni opera autentica, che nasce non dalla decisione di scrivere un libro bensi’ dall’ intuizione di una storia che assume progressivamente la sua forma mentre la si cerca e la si inventa, tema e personaggi hanno un’ autonomia oggettiva; cosi’ durante il lavoro quel progetto originario prese a mutare radicalmente e ad esigere altro respiro. Narrare la storia di Hans Castorp, un giovane ingegnere discendente da una famiglia borghese anseatica simile ai Buddenbrook che si reca a visitare un cugino ricoverato in un sanatorio per malattie polmonari col proposito di restarvi per un breve periodo e vi rimane invece per anni, irretito dall’ oblioso fascino del luogo che e’ insieme effetto e causa della malattia, richiedeva di raccontare una storia tanto piu’ ampia, di cui il destino di Castorp fosse un simbolo, e cioe’ la storia spirituale della civilta’ europea affascinata dalle seduzioni della morte e del dissolvimento, affinata e insieme imbarbarita da quelle seduzioni infere. Per trasformare l’ abbozzato romanzo iniziale nelle 1.200 pagine della Montagna incantata, Mann doveva affrontare a fondo pure il problema della Germania e del suo ruolo rispetto all’ Europa, l’ oscillazione tedesca fra Occidente e Oriente e la sua vocazione a porsi quale mediazione o superamento di quell’ antitesi, la tentazione della Germania di mettersi contro l’ Europa o alla sua testa. Anche se Mann, nel 1912, non aveva accettato di farsi ricoverare a Davos per sei mesi, come gli aveva consigliato il medico, e si era dunque sottratto a quell’attrazione che induce Hans Castorp a soggiornare per sette anni in quel regno delle ombre, per scrivere il romanzo dovette compiere anch’ egli un viaggio nei propri inferi. Infatti tra il 1912 e il 1924 quelle contraddizioni tedesche, che costituiscono lo sfondo culturale e politico del romanzo, un suo Leitmotiv, invischiavano direttamente lo stesso Mann. Nel ‘ 12 egli era ancora un “impolitico”, un conservatore tedesco avverso alle liberaldemocrazie occidentali e fautore, come si direbbe oggi, di un’ Europa tedesca; nel ‘ 24 era gia’ un difensore umanistico del liberalismo e della democrazia, il maestro spirituale di un’ auspicata Germania europea, che di li’ a poco la storia avrebbe clamorosamente negato. Nel ’12 Mann era piu’ affine a Naphta, che nella Montagna incantata si fa portavoce . pur nella deformazione parodistica . dell’ irrazionale, del totalitarismo e della morte; nel ’24 era piu’ vicino, sia pure con ironia, alle idee democratiche, repubblicane e progressiste di Settembrini, l’ avversario umanista, e altrettanto caricaturale, di Naphta. L’ azione della Montagna incantata si svolge prima della prima guerra mondiale, col cui scoppio essa finisce; il mondo che il romanzo ritrae e’ quello della civilta’ borghese europea che si sgretola interiormente scoprendo, tramite la malattia, nuove dimensioni della realta’ e dello spirito che essa non riesce a comprendere e a dominare e che l’ arricchiscono ma anche inquinano, votandola alle sottigliezze e alle brutalita’ della morte. Quel mondo perisce con la guerra del ‘ 14.’ 18, che appare, con paradossale ironia, quasi una salvezza, un richiamo ai solidali doveri della vita attiva che strappa Hans Castorp all’incanto dell’ inerzia e della morte, all’ incanto di quell’ Eros che nelle sue piu’ remote profondita’ e’ simile alla morte perche’ chiama al naufragio dell’ io razionale, all’ incanto delle capziose finezze analitiche coltivate nel sanatorio, anch’ esse simili alla morte, perche’ come quest’ ultima scompongono e dissolvono l’ unita’ della vita. Ma La montagna incantata, che esce nel ‘ 24, non e’ affatto il canto del cigno di un mondo scomparso; pur ambientata nell’ anteguerra, essa in realta’ ritrae simbolicamente . e in cio’ sta la sua grandezza . le inquietudini dell’ Europa fra le due guerre, oscillante fra tentazioni distruttive e valori umanistici. Il romanzo non e’ una rievocazione del passato, bensi’ una diagnosi del presente, della crisi che l’ Europa stava vivendo quando il libro stesso fu pubblicato. Ma cio’ dunque significa che la prima guerra mondiale, anche se essa nel romanzo sblocca alla fine lo stallo psicologico e morale del protagonista, non ha affatto risolto le contraddizioni dell’ Europa d’ anteguerra, bensi’ le ha aggravate. Dalla sua “sagra della morte” non e’ sorto affatto “l’ amore” come si chiede il narratore alla fine del libro e come avevano sognato i patriotti interventisti democratici. Nel ‘ 24 il lettore della Montagna incantata non si trova nella democratica e concorde Europa dei popoli vagheggiata da chi credeva di costruirla sulle rovine di quella ottocentesca, bensi’ in un torbido e inquieto caos; questo lettore e’ un Hans Castorp tentato da pericoli ancora piu’ grandi, quelli che faranno perire poco dopo l’ Europa nel totalitarismo e nella seconda guerra mondiale. Le cose cominciate con la Grande guerra continuano a cominciare, perche’ essa non ha creato un nuovo equilibrio, ma e’ stata il violento episodio di una crisi che si fara’ sempre piu’ violenta, negli anni successivi alla pubblicazione del romanzo, col trionfo dei fascismi, del nazismo e dello stalinismo e con lo sterminio del secondo conflitto mondiale. Nemmeno quest’ ultimo, che pure e’ stato lo scontro forse piu’ netto della storia fra il male e il bene o comunque il meno peggio, la lotta piu’ necessaria contro il Leviatano, ha risolto quelle crisi e chiuso il capitolo iniziato nel ‘ 14, creando un nuovo stabile assetto europeo, ma ha lasciato un’ Europa scissa e bloccata, per mezzo secolo, da paralizzanti antinomie e contrapposizioni. E ancor piu’ paradossalmente, 65 anni dopo La montagna incantata, il crollo del comunismo e la fine della contrapposizione fra Occidente e Oriente richiamano nuovamente in vita, come fantasmi che si credeva fossero morti mentre invece erano solo assopiti, gli spettri, i problemi, i sentimenti, le contraddizioni, i pericoli che assillavano Castorp nel suo sanatorio, nella sua Europa malata, alla vigilia della prima guerra mondiale. I nazionalismi, lo scontro fra ideali cosmopoliti e ideologie scioviniste, l’ affermazione viscerale di identita’ etniche trasformate in categorie platoniche, il rigurgito di passioni sepolte da secoli, il ruolo di nuovo eminente della Germania e le contrastanti ipotesi sui modi nei quali esso potra’ venire esercitato, le filosofie mitizzanti della storia, le seduzioni e le angosce apocalittiche, la tensione fra illuminismo e irrazionalismo: tutto sembra rinascere e ripresentarsi, con la violenza astrusa ed esaltata degli “ostinati e sterili ragionatori” della Montagna incantata, come li definisce Ladislao Mittner, che riflettono, nella loro surreale sospensione, sanguinose antitesi del mondo. L’ Europa centrale, ma non solo essa, e’ divenuta di nuovo un pandemonio ideologico da cui puo’ nascere tutto; si sentono, pronunciati da persone in carne e ossa che rivestono ruoli politici e culturali, deliri che si credevano possibili solo sulle labbra dei personaggi della Montagna incantata e consegnati al passato. Molte ideologie, che pareva avessero contribuito a superare quei grovigli della vecchia Europa, rischiano di rivelarsi invece elementi e componenti di quel mondo e della sua catastrofe, non gia’ rimedi bensi’ sintomi di quella malattia. Non conta molto che Mann abbia preso a prestito, per la figura di Naphta, alcuni tratti di Lukacs; e’ piu’ inquietante che Lukacs possa apparire, senza che cio’ sminuisca la sua grandezza, come un Naphta, ossia come un personaggio geniale irretito nella sindrome di un’ epoca dissestata anziche’ quale un pensatore che mostri una via per superare quel dissesto. Allo stesso modo, dinnanzi alle contraddizioni della realta’ , molti maestri di liberalismo e democrazia rischiano di apparire, senza che cio’ scalfisca l’altezza del loro spirito , umanisti inadeguati come il signor Settembrini. Mann non ha risolto le antinomie rappresentate nella Montagna incantata, ma forse nemmeno la storia le ha risolte e l’elusiva disponibilita’ post moderna in cui viviamo assomiglia all’ irresponsabilita’ morale consentita dal sanatorio a Hans Castorp. La montagna incantata e’ certo impari ai Buddenbrook, capolavoro che contiene tante cose che Mann probabilmente non sapeva di avervi messo e non aveva intenzionalmente progettato di mettervi, libro che dice tutta la grazia e la vanita’ della vita e racconta i contrasti storico.sociali, come osserva Cesare Cases, senza pretendere di mediarli. Nella Montagna incantata la “conciliazione del demoniaco con l’ ufficiale”, come la chiamava Mann scorgendovi la propria dimensione artistico-pedagogica, esibisce talvolta un tratto decorativo, una levigata affabilita’ che smussa la forza della rappresentazione, cosi’ come le splendide e compiaciute descrizioni dei cibi suggeriscono la compostezza del menu’ d’ alta classe piuttosto che il sapore in bocca. Alcune spiegazioni esplicite, troppo pedagogiche e facilitanti per il lettore, possono far capire perche’ Musil, faziosamente, accusasse Mann di essere uno scrittore all’ ingrosso. Ma il romanzo e’ grande per la sua struttura e per tante pagine indimenticabili, per l’ incanto della perdizione amorosa, soprattutto per la sua rappresentazione del tempo, per la sua capacita’ di coincidere, a seconda dei casi, col suo trascorrere lento o col suo condensarsi e svanire. Sofisticato romanzo intellettuale, La montagna incantata mostra il trionfo della vitalita’ anche pacchiana, incarnata da Mynheer Pepperkorn, sulle sofisticherie intellettualistiche di Naphta e Settembrini, ma senza quelle discussioni intellettuali, anche capziose, quella vitalita’ perderebbe significato. Rileggere La montagna incantata aiuta pure a ricordarci, specie in un momento in cui si tende a dimenticare la tensione conoscitiva della narrativa, che ogni grande romanzo che parla d’ amore e di morte e’ pure un saggio che riflette sulla vita, un’ enciclopedia del delirio del mondo. Protagonista del libro e’ la civilta’ europea fra le due guerre, nel momento in cui il mondo si stava sgretolando. Il crollo del comunismo e la fine dei blocchi fanno rivivere gli spettri che assillavano Hans Castorp nel suo sanatorio.

Claudio Magris.





Montagna Incantata 005

Montagna Incantata 005

E’ infine da poco disponibile una nuova versione, in cui anche il titolo del romanzo viene leggermente modificato. Uno dei ‘Meridiani’ Mondadori e’ ora dedicato a ‘La montagna magica’, con la traduzione di Renata Colorni, Milano: Mondadori, 2010.
Su questa nuova traduzione in rete abbondano notizie, commenti e recensioni. Di seguito sono riportati:
– un articolo di Pietro Citati apparso su ‘Repubblica’,
– gli stralci iniziali di due recensioni di Andrea Casalegno e Massimo Bonifazio, apparse nella versione on-line dell’ ‘Indice dei Libri del Mese’, nel numero di Gennaio del 2011.
– un post riepilogativo apparso sul blog dedicato all’editoria della facolta’ di Lettere dell’Universita’ di Roma,



LA NUOVA MONTAGNA DI THOMAS MANN
ECCO PERCHÉ DA INCANTATA È DIVENTATA MAGICA

di PIETRO CITATI – laRepubblica — 03 novembre 2010 ,

Con ogni probabilità, Thomas Mann derivò il titolo del suo romanzo La montagna magica, pubblicato nel 1924 (Meridiani Mondadori, a cura di Luca Crescenzi, traduzione di Renata Colorni, con un saggio di Michael Neumann, pagine CLXXVIII-1422, euro 55), da una frase di Nietzsche: «Ora si apre a noi il monte magico dell’ Olimpo e ci mostra le sue radici». Per Nietzsche, il monte magico dell’ Olimpo era il mondo di Apollo: il mondo della violenza, della dismisura, della colpa, della tenebra, miracolosamente capovolti in legge, armonia, misura, equilibrio, quiete, purezza, profezia. Non so se Mann lo amasse: forse riteneva che non era quello moderno, anzi modernissimo, dove scriveva il suo ardimentoso romanzo sinfonico. Così Mann rovesciò il significato di quell’ aggettivo: magico non era più il regno di Apollo, ma quello del giovane dio rivale, Ermes. Corresse l’ errore di Nietzsche perché Apollo ignora ogni magia mentre Ermes fonda il suo regno sulla magia. Profondamente nutrito di cultura mitologica, Mann sapeva che Ermes era stato concepito nella notte in un profondo antro ombroso, tra i monti e i boschi dell’ Arcadia. Il dio aveva una mente dalle molte forme, che si volgeva, sempre sinuosa, da tutte le parti: il suo spirito aveva molti colori: era ondeggiante, scintillante, inestricabile; e affascinava tutti coloro che l’ incontravano. Ermes giocava ironicamente con l’ universo: era un grande artigiano: un ladro: un maestro di discorsi veri e falsi: conosceva il desiderio erotico senza rimedi; accompagnava all’ Ade le anime dei morti, sorvegliando le frontiere, i crocicchi e le porte. Amava il viaggio, il commercio, il linguaggio, l’ interpretazione. Con una geniale intuizione Mann comprese che la modernità, in quegli anni dal 1912 al 1924 in cui compose il suo libro, viveva sotto il segno di Ermes. Ma ampliò e mutò questo segno. Il mondo ermetico moderno non affondava nelle caverne, ma stava in alto, presso le cime delle altissime montagne dei Grigioni, tra le nevi, le nebbie, il freddo, il gelo, le nuvole grigio-azzurre, i radiosi e vellutati raggi di sole, il luccichio diamantino della luna, l’ ovattata assenza di suoni, le cliniche dove veniva curata la Tubercolosi. Esso aveva due qualità che quello classico non conosceva. La prima era la malinconia: cara a Marsilio Ficino e a Dürer. La seconda era la fascinazione della malattia, che conduceva alla fascinazione ancora più profonda della morte. *** Il monte magico è diviso tra due spazi opposti. Il primo sono le pianure di laggiù: il lavoro, la ragione, la salute, la misura, il limite; tutte qualità che culminano nella laboriosissima Amburgo, protesa con le sue navi verso le lontananze degli Stati Uniti. Le montagne di quassù sono invece il luogo della malattia, della fascinazione, del sogno, della morte. Davanti allo sguardo di Thomas Mann e di Hans Castorp, le pianure diventano lontanissime ed estranee e presto vengono dimenticate: mentre tutta l’ attenzione è concentrata sulle nevi e il sole e la malattia di quassù. Nel bel viso di Hans Castorp, l’ eroe del romanzo, un’ alterigia ereditaria si manifesta sotto forma di un’ oscura indolenza: sottili baffetti biondi ne ornano le labbra: un certo torpore, una certa lentezza e inerzia, ne avvolge la figura; un’ affabile compiacenza gli fa reputare ogni cosa degna di essere ascoltata. Vive sette anni nella grande clinica, conoscendo ogni esperienza. Dapprima quella del bianco: le pareti bianche compatte; l’infermiera con la cuffia bianca: le porte numerate laccate di bianco; i mobili bianchi, i tappeti bianchi, le tende di lino. Poi conosce i fischi e i raschi della tubercolosi: i raggi Röntgen, il dormiveglia e la febbre. E mentre i rapporti con le terre basse si sciolgono, Hans Castorp vive sempre più chiuso e incantato nell’ alone della tubercolosi. Tutti i suoi sentimenti sono trasformati dalla luce morbida della malattia. Sogna sempre più profondamente, scambia le ombre per cose, e vede nelle ombre le cose. Si innamora come non si era mai innamorato: occhi slavi tra il grigio e l’ azzurro lo traggono nel loro abisso; e là trova qualcosa di erotico e di androgino che aveva provato nell’ adolescenza. Sale sulle montagne dei tremila metri. Vede nella neve la fonte della vita: vi adora l’ origine di tutte le cose: si imbeve di quella luce «strana, delicata, misteriosamente attraente»; prova una specie di estasi, che lo porta vicino alla morte, forse oltre il paese della morte. Mentre le particelle di neve gli fioccano sul viso, il tempo si perde: non c’ è più il tempo degli orologi, ma una condizione simile alla crescita segreta, strisciante, impercettibile dell’ erba. Nella clinica di montagna, Hans Castorp non conosce un vero sviluppo interiore: nessun “potenziamento ermetico”, nessun “accrescimento alchimistico”, come Mann affermava; e alla fine ignora la pietra filosofale che aveva conquistato il suo lontano predecessore, Wilhelm Meister nei Lehrjahre di Goethe. Le terre basse diventano ancora più lontane: mentre sta disteso nella sua sedia a sdraio, Hans Castorp non scrive né riceve lettere; il suo orologio da tasca cade dal comodino e si rompe, uccidendo il tempo. Come afferma Luca Crescenzi, l’intero Zauberberg non è che un sogno ininterrotto lungo sette anni: sebbene il libro non sia veramente permeato da una profonda atmosfera onirica come quella che invade le prose di Thomas De Quincey e di Gérard de Nerval. Tutto finisce nell’ agosto 1914, quando un rombo immane segna l’inizio della prima guerra mondiale, e mette fine all’ epoca “borghese-estetica” dove Thomas Mann era cresciuto. Hans Castorp lascia le terre alte: ritorna nella vita, da tanto tempo abbandonata; e combatte tra il rombo dei tuoni, rossi bagliori nel cielo cupo, proiettili furibondi, schegge, scoppi, gemiti e grida, squilli di tromba e tamburi crepitanti, baionette e cadaveri. Forse muore in combattimento. Con lo scoppio della guerra si chiude il clima di Ermes: così almeno Thomas Mann sembra credere. Ma io penso che, con i suoi aspetti multiformi, la mente colorata e la fascinazione, il mondo di Ermes abbia soggiogato la maggior parte del ventesimo secolo. Ne siamo usciti da poco. O forse è impossibile uscirne. *** L’ edizione dei Meridiani è eccellente. L’ introduzione di Luca Crescenzi è piena di idee originali, e il commentoè un intreccio di analogie, dove appaiono e scompaiono i malinconici, gli ermetici, i romantici, Schopenhauer, Kierkegaard, Nietzsche, George Brandes, Ricarda Huch, Freud. Renata Colorni affronta un compito ancora più difficile: rendere l’ardua prosa di Mann; quella mescolanza di lirica, razionalità e falsetto, capace di sfibrare qualsiasi traduttore. La sua versione è perfetta. Forse, inebriati dall’ entusiasmo, i due curatori sopravvalutano l’ arte di Thomas Mann e il Zauberberg. Mann è un grande narratore, ma non un genio del ventesimo secolo come Conrad, Proust, Kafka, Musil, la Woolf, Nabokov. Non amo il falsetto della sua prosa, né le innumerevoli nozioni e idee che la sua regale cornucopia rovescia sopra il nostro capo indifeso.



Thomas Mann
La montagna magica
pp. CLXXXIII-1422, € 60, Mondadori, Milano 2010



Recensioni di Andrea Casalegno e Massimo Bonifazio
http://www.lindiceonline.com/index.php?option=com_content&view=article&id=438:libro-mese-gen-11&catid=36:il-libro-del-mese&Itemid=55 ,



La forza del confronto
di Andrea Casalegno

Nel prologo a La montagna magica (traduzione di Renata Colorni, in seguito C), ovvero nella premessa a La montagna incantata (traduzione di Ervino Pocar, in seguito P), Thomas Mann si prepara a raccontare la storia di Hans Castorp, “un giovane uomo come tanti” C (“un semplice giovanotto” P), “in modo preciso e minuzioso” C (“con esattezza e a fondo” P), poiché ritiene che “sia davvero avvincente solo ciò che viene approfondito in ogni dettaglio” C (“soltanto ciò che va in profondità riesce a divertire” P). Al momento dell’addio, nel crogiolo della “voluttà smaniosa e maligna” C (“febbre maligna” P) della guerra, constateremo che è stato di parola: nessun dettaglio ci è stato risparmiato.

Per questo è così importante ogni parola, ogni sfumatura, ogni salto di ritmo del testo, che ogni traduttore declina a modo suo. La nuova versione, che non si può non ammirare, non “supera”, non annulla la precedente, la rende anzi più viva con la forza del confronto; e sul confronto sarà basata questa presentazione, che apprezza entrambi i testi, anche se non nasconde la preferenza per il più recente.

L’eroe “non eroico” di questo grande romanzo di formazione è “una specie di foglio bianco tutto da scrivere” C (P equivoca traducendo “incerto com’era”). Saranno le esperienze vissute nel sanatorio di Davos, il contatto quotidiano con la malattia, il dolore, l’amore e la morte, la feroce tenzone tra gli irriducibili antagonisti che si contendono la sua anima, il democratico Settembrini e il reazionario Naphta, a far diventare uomo quel giovane di ventitrè anni, laureato in ingegneria; fino alla sua decisione di tuffarsi volontariamente nella “sagra di morte” del 1914.

L’itinerario è scandito da alcune parole ricorrenti anche a centinaia di pagine di distanza, tracce cui Mann assegna la funzione di motivi conduttori (Leitmotive), che per la prima volta C identifica con rigorosa coerenza: un risultato che basterebbe a rendere imprescindibile la nuova traduzione.

Una delle prime è il “pudico rabbuiarsi” C (“accigliamento costumato” P) del protagonista quando ode nella stanza a fianco i rumori inconfondibili di un amplesso coniugale. Le due parole torneranno dopo più di 250 pagine di fronte all’impudicizia della radiografia toracica. P manca l’appuntamento, poiché la seconda volta traduce “col viso decorosamente offuscato”.

Leitmotiv di tutto il romanzo è la definizione che Settembrini dà del suo giovane amico: Sorgenkind des Lebens, “riottoso figlio della vita” C. P traduce “pupillo”, senza aggettivo, con grave perdita di significato. Da Leitmotive sono caratterizzati tutti i personaggi. Scharf (tagliente) è detto costantemente Naphta, l’ebreo gesuita apologeta del sangue e del terrore. C traduce sempre “caustico”. P oscilla tra “spiccato”, “affilato”, “penetrante”, “acuto”.

Nel sanatorio i sentimenti vanno tenuti a freno. Neppure a un moribondo è concesso lamentarsi con troppa foga. “Non si comporti in questo modo!” C, ammonisce il responsabile dell’istituto. “Non faccia lo stupido!” traduce un po’ brutalmente P. Travolto dall’amore irresistibile per una giovane signora “sciatta” e “incantevole” C (“trascurata” e “deliziosa” P), che gli ricorda un compagno di scuola del quale fu tacitamente innamorato, Hans però non cerca affatto di dissimularlo. Tanto più che non è il solo; un altro ospite la guarda “con una timidezza e un’insistenza paragonabili a quelle di un cane” C (“con una timorosa invadenza che toccava la servilità” P).

Fin dai primi incontri Settembrini, paladino della vita e della ragione, insiste perché il giovane ingegnere si sottragga al fascino perverso della montagna, cioè della malattia e della morte. Ma Hans trova “irragionevole” C (“contro il buon senso” P) il suo invito a tornare a valle. Allora Settembrini sbotta: “I miei rispetti alla ragione” C (“M’inchino al buon senso” P). L’ironia è il Leitmotiv stilistico del romanzo.

La resistenza a quel fascino perverso è il perno etico della vicenda e l’argomento del capitolo centrale, in cui il protagonista si smarrisce in una tempesta di neve. Dopo la primaveraestate d’alta montagna, “chiarità, asciuttezza, serenità e ruvida grazia” C (“aria limpida, secca, serena, tutta grazia acerba” P), è sceso l’inverno. Per la prima volta Hans, che ha comprato di nascosto un paio di sci e si allena in segreto a usarli, rischia la vita. “Sparivano i contorni delle cime, si dileguavano tra le nebbie e i vapori. Diafane superfici nevose che si susseguivano e si sovrapponevano guidavano lo sguardo verso una realtà priva di consistenza” C (“La sagoma delle vette scomparve, svanì nella nebbia e nel fumo. Campi di neve sotto quella luce sbiadita, susseguentisi, sormontantisi, guidavano l’occhio verso l’irreale” P). Dal pericolo mortale nasce, dopo un lungo sogno, una consapevolezza che è la chiave del romanzo: “La diserzione della morte è nella vita… Non intendo concedere alla morte il dominio sui miei pensieri” C. P aveva scritto “sconsideratezza” dove C ha “diserzione”: cambia solo una parola, ma decisiva… (continua)



Una corazza di gesti
di Massimo Bonifazio

Quella dello Zauberberg è una storia che si può ben definire romanzesca: le prime idee vengono a Thomas Mann nel 1912, durante una breve visita alla moglie Katia ricoverata in sanatorio a Davos, in Svizzera. Il mondo appartato che ha modo di vedere, ricco di aneddoti e personaggi quantomeno originali, deve certo solleticare la sua fantasia, ancora alle prese con le pagine finali della Morte a Venezia. Mann progetta un racconto, un breve pendant umoristico e grottesco alla novella di Aschenbach, nel quale riprendere il tema della morte ironizzando, fra l’altro, sulla cupidigia e il cinismo che governano le case di cura. Il lavoro gli cresce presto fra le mani; il 1° agosto 1914 ha un pensiero fulminante: l’inizio della guerra costituirà la fine dell’opera, la sua chiave di volta. Il conflitto mondiale impone però allo scrittore una pausa, durante la quale scrive quello spropositato “regesto dei dolori” che sono le Considerazioni di un impolitico (1918), una grandiosa battaglia di retrovia in cui difende il germanesimo da ogni attacco, tanto esterno quanto, soprattutto, interno. Al romanzo rimette mano solo nel 1919, per concluderlo nel 1924.

La sua stesura attraversa tutte le fasi dell’oscillazione politica di Mann: dall’impoliticità inconsapevole precedente la guerra alle prese di posizione conservatrici indotte dal suo scoppio alla svolta democratica e oltre. Il romanzo non può non caricarsi delle tensioni che agitano lo scrittore in questo lungo periodo; e in varie occasioni Mann sostiene che il saggio “impolitico” è stato scritto proprio per sgravare il romanzo dall’eccessivo peso ideologico (che pure permane, e a tratti rende estenuante la lettura). La trama è nota: il giovane Hans Castorp va in visita in un sanatorio svizzero, con l’intenzione di fermarsi tre settimane; l’atmosfera del luogo lo ammalia e vi si ferma sette anni, esposto alle più varie suggestioni: da quella erotica incarnata da Clawdia Chauchat a quella filosofico-politica dei suoi due mentori, con la solare ragionevolezza di Settembrini, intrisa di illuminismo e umanesimo, a contrasto con la cupa ideologia di violenza di Naphta e il suo sfondo irrazionalista. Solo lo scoppio della prima guerra mondiale lo farà tornare alle “terre basse”, sottraendolo alla sfera “ermetica” del sanatorio.

Il romanzo viene ora riproposto in Italia con il titolo La montagna magica – contro il vecchio La montagna incantata – da un “Meridiano” Mondadori, tradotto con ammirevole accuratezza da Renata Colorni, che ha redatto anche un’interessantissima Nota alla traduzione. Il volume è introdotto da un saggio di Michael Neumann dal titolo Discesa agli inferi; la curatela è di Luca Crescenzi, che con la sua introduzione e le note al testo fornisce un commento minuzioso e puntuale, assai utile e anzi necessario a sbrogliare la complicata matassa dei riferimenti interni ed esterni dell’opera forse più stratificata e “pensata” di Thomas Mann, se non della letteratura tedesca in generale. È tutto un magmatico ribollire, un vertiginoso accavallarsi di rimandi, temi, allusioni, ricoperti dalla pacificante patina della scrittura manniana: armoniosa, elegante, di “prodigiosa ricchezza lessicale” (Colorni), lontanissima dalle avanguardie coeve. Al centro del romanzo c’è “un giovane uomo come tanti”, Hans Castorp appunto, che fa da prisma attraverso il quale un’intera epoca viene riflessa e rifratta… (continua)





Sulla traduzione
http://editoria.let.uniroma1.it/cms/2010/11/sulla-traduzione.html#more .

Questo post è dedicato in modo particolare agli studenti della nostra Facoltà che seguono il corso di laurea specialistica in Lingue moderne, letterature e scienze della traduzione, nonché è pensato anche per quelli della laurea triennale con interessi sui temi della codificazione del linguaggio e del rapporto tra la letteratura e la vita. Lo spunto è offerto dal dialogo, pubblicato nella pagina culturale del «Corriere della Sera» del 3 novembre 2010, tra lo scrittore e saggista Claudio Magris e la responsabile della collana “I Meridiani” della casa editrice Mondadori Renata Colorni.

Claudio Magris ha iniziato la sua attività con un lungo studio sugli effetti del crollo dell’impero asburgico (Il mito asburgico nella letteratura austriaca moderna, che risale agli inizi degli anni Sessanta), per poi passare o a pièces teatrali o a un genere originale di “divagazioni” letterarie e di approfondimenti anche polemici: da Danubio (metà degli anni Ottanta) o da Microcosmi (metà degli anni Novanta) fino al più recente La storia non è finita (2006). Renata Colorni, figlia di Ursula Hirschmann e del militante antifascista Eugenio Colorni (ucciso a Roma nel 1944 durante la Resistenza), ha curato negli anni Settanta per la Boringhieri l’edizione italiana delle opere di Sigmund Freud, si è occupata negli anni Ottanta e all’inizio dei Novanta dei libri di letteratura tedesca della Adelphi, fino a diventare dalla metà dello scorso decennio responsabile editoriale del settore Classici e della collana “I Meridiani” della casa editrice Mondadori.

Oggetto della conversazione è la nuova edizione di quella che senza dubbio può essere considerata una delle opere principali di Thomas Mann: Der Zauberberg, pubblicata in Germania nel 1924 e tradotta in italiano intorno al 1930 da Bice Giachetti-Sorteni per l’editore Dall’Oglio con il titolo La montagna incantata; ritradotta con lo stesso titolo da Ervino Pocar in una prima edizione della Mondadori passata poi per questione di diritti alla Corbaccio. Renata Colorni ha portato a termine una terza traduzione della storia di Hans Castorp, che da visitatore quasi occasionale di un sanatorio svizzero si ritrova ad esserne ospite degente fino all’inizio della prima guerra mondiale in cui andrà incontro a una morte probabile sul campo di battaglia. La prima novità è il cambiamento del titolo: non è più “incantata” la montagna del sanatorio, ma “magica”, come aderenza al campo semantico della parola tedesca e, aggiungiamo noi, come omaggio al suo autore soprannominato “il mago” nel lessico familiare. Tra l’altro Mann è stato anche autore di un romanzo breve Mario e il mago (tradotto nel 1945 e ripubblicato nel 1977 da Mondadori proprio nei Meridiani) che nella versione originale suona appunto come Mario und der Zauber.

Lasciamo la parola alla Colorni per capire a quale visione si è ispirata in questa nuova impresa:

«Considero la mia attività di traduttrice, che nel corso di quarant’anni si è sviluppata parallelamente al lavoro editoriale di redazione, revisione, scelta e cura di testi, il momento più alto, originale e creativo di una professione che pretende senso di responsabilità, lealtà, e perfino umiltà. Perché, come dice Simone Weil, l’umiltà è innanzitutto una qualità dell’attenzione. Quando traduco un testo letterario, solo dopo aver maniacalmente praticato la virtù morale dell’attenzione, che implica un processo di immedesimazione e auto-annullamento che mi rende capace di diventare l’altro, solo allora posso sperare di ridiventare me stessa, come ha detto Paul Valéry, e accingermi a gustare la vittoria di scrivere quel testo in italiano, con uno stile mio che aspira a essere ospitato nel campo letterario della nostra lingua come una voce nuova in grado di potenziarlo e arricchirlo.»

Montagna Incantata 004

Montagna Incantata 004

Magris è d’accordo con l’impostazione della Colorni perché ritiene che un testo saggistico o letterario, trasportato in un’altra lingua, è qualcosa che appartiene sicuramente all’autore della versione originale, ma al tempo stesso diventa anche del traduttore che lo ha capito, interpretato e, quindi, adattato alla lingua di arrivo. L’autore, per ottenere il risultato migliore, non può sottrarsi al confronto con il traduttore, confronto fatto di incontri nei casi più semplici, di telefonate, di lettere o di mail in quelli con una distanza maggiore. E talora, da questo scambio intenso, non è soltanto il traduttore ad apprendere sensi e significati stilistici o letterari, ma è lo stesso autore a scoprire sfumature e implicazioni di cui non si era reso conto consapevolmente durante la stesura del testo.

Per la Colorni l’impegno di questa nuova traduzione è consistito principalmente nel restituire al testo tempi e ritmi di una “grandiosa partitura musicale”, in cui avviene la formazione del giovane protagonista, alle prese in modo inaspettato con una realtà di cui non aveva immaginato né presentito l’esistenza. Al tempo stesso, su un piano più diretto e personale, la Colorni riconosce con grande sincerità che questo lavoro di traduzione le ha permesso di saldare un antico debito di riconoscenza con la figura materna che l’aveva esposta e avvicinata giovanissima alla cultura tedesca e che di questo libro le aveva parlato a lungo come testo fondamentale per la sua formazione.

Perciò, in definitiva, non sorprende che «ho dedicato intimamente a lei questa ultima fatica, una specie di ponte tra noi due, un mio modo personale di risarcirla, di medicare quella sua dolorosa lacerazione» (all’avvento del nazismo, la madre, di origine ebraica, era stata costretta a fuggire dalla Germania).

Aggiornamento del 5 novembre 2010. Sulla «Repubblica» dello stesso 3 novembre lo scrittore e saggista Pietro Citati presenta la terza edizione mondadoriana, privilegiando una personale lettura critica dell’opera all’analisi delle caratteristiche della nuova traduzione. Citati sposa in pieno la scelta di cambiare nel titolo l’attributo dell'”incanto” con quello della “magia” e avanza l’ipotesi che esso derivi da una frase di Nietzsche sul monte Olimpo, considerato come monte di Apollo per eccellenza. A questa messa a punto segue una lunga disamina della soluzione di Thomas Mann di sostituire nel romanzo Apollo con il dio Ermes, più adatto a rappresentare la modernità del racconto se opportunamente arricchito da “due qualità” assenti nel mondo classico: la malinconia da un lato e la fascinazione della morte dall’altro. E qui entra in gioco una descrizione accurata della figura del protagonista Hans Castorp che non si cimenta in un percorso di iniziazione, ma si adagia nella condizione del malato, destinato a soffrire fino alla dura conclusione imposta dalla prima guerra mondiale.

Nell’ultimo paragrafo Citati esprime sinteticamente la sua valutazione sulla nuova edizione dell’opera, che trova “eccellente” nell’introduzione di Luca Crescenzi e nella traduzione di Renata Colorni: il testo di Crescenzi è pieno di “idee originali”, mentre la versione della Colorni è “perfetta”, in quanto riesce a trasporre perfettamente nella lingua italiana una prosa complessa e articolata come quella di Mann, che miscela sapientemente “lirica, razionalità e falsetto”.

Aggiornamento del 28 novembre 2010. Sul “Domenicale” odierno del «Sole 24 ore» Andrea Casalegno, redattore per la letteratura, e in particolare per quella di lingua tedesca, non lesina complimenti e ammirazione per il lavoro svolto da Luca Crescenzi nella costruzione dell’apparato delle note esplicative e da Renata Colorni nella traduzione del testo. Quanto al primo, il contributo fornito è “di una vastità e profondità che lascia senza parole” perché “non si limita a recuperare, citare ampiamente e tradurre le fonti letterarie e scientifiche delle idee, delle frasi e a volte delle singole parole di Mann, ma compie un’originale indagine sulle probabili fonti iconografiche delle sue descrizioni”.

Secondo Casalegno, poi, la traduzione della Colorni “è davvero, rispetto al precedente [di Ervino Pocar, pure eccellente aggiungiamo noi], un’altra cosa. Confrontando parola per parola le due versioni con l’originale si crede appena alla mole di lavoro compiuta dalla traduttrice […]. L’analisi di ogni parola e ogni giro di frase, l’attenzione assoluta ai termini ricorrenti, che per esplicita indicazione di Mann hanno la funzione di Leitmotive, cioè di motivi conduttori musicali, la cura del ritmo, del suono, del fraseggio, la resa delle espressioni colloquiali, l’impegno a non trascurare alcuna sfumatura espressiva, da quelle ironiche a quelle commosse, che di continuo si alternano, danno la misura di una tenacia inflessibile, che sbalordisce ancor più della capacità linguistica”.

Dalla modificazione del titolo (da “incantata” la montagna diventa “magica”), a passaggi chiave o ad espressioni particolari, le scelte della Colorni sono quasi sempre felici, così come sono acute e non scontate quelle di mantenere le soluzioni appropriate di Pocar.


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